Tra le donne che hanno fatto la storia in Italia non si può non menzionare la figura di Lidia Poet. Lidia Poet è conosciuta per essere stata la prima donna a essere iscritta all’Albo degli Avvocati in Italia anche se, a causa di una cultura retrograda e di stampo patriarcale che purtroppo in parte permane anche ai giorni nostri, infine non fu in grado di esercitare la professione. Ecco tutto quello che c’è da sapere su questa importante figura femminile.
Lidia Poet: biografia e storia
Lidia Poët nacque il 26 agosto 1855 a Perrero, in Piemonte, ed è conosciuta poiché è stata la prima donna a entrare nell’Ordine degli Avvocati in Italia. Nata in una famiglia benestante, si trasferì a Pinerolo, presso suo fratello Enrico, avvocato, durante l’adolescenza. Dopo aver conseguito il diploma di maestra e aver viaggiato all’estero, tornò a Pinerolo e si iscrisse alla facoltà di Legge dell’Università di Torino.
Nel 1881 ottenne la laurea in giurisprudenza con una tesi particolarmente rilevante, incentrata sulla condizione delle donne all’interno della società e sul tema del diritto di voto per le donne. Successivamente si dedicò al praticantato presso l’ufficio di Cesare Bertea, avvocato e senatore. Dopo aver superato gli esami per diventare procuratore legale, avanzò domanda per iscriversi all’Ordine degli Avvocati di Torino. Nonostante le aspre polemiche che ne conseguirono, dal momento che non esisteva alcuno specifico divieto per le donne di essere iscritte all’Albo, Lidia Poët divenne la prima donna iscritta all’ordine. Era il 9 agosto del 1883.
Impugnazione e motivazioni
Il procuratore generale del Regno protestò e infine impugnò la decisione dell’Ordine degli Avvocati di Torino innanzi la Corte d’appello di Torino, facendo valere il divieto per legge per le donne di entrare nell’ordine. La Corte di Appello di Torino accolse la sua richiesta e cancellò Lidia Poet dall’albo. La motivazione consistette nell’equiparazione della professione dell’avvocato a quella del pubblico ufficio e, di conseguenza, preclusa alle donne. In più, motivò con argomentazioni lessicali (non esisteva il corrispettivo femminile per la parola “avvocato”) e, non da ultimo, sociali, come per esempio l’idea che per una donna fosse “inopportuno” indossare una toga o discutere di determinati argomenti, o ancora che la presenza di una donna poteva condizionare la facoltà di giudizio del giudice.
In altre parole, non poteva essere ammessa l’idea che una donna fosse in grado di svolgere questa professione, adducendo motivazioni non tanto di carattere professionale quanto piuttosto legate all’apparenza e alla presunta “frivolezza” tipica del carattere femminile. Nella sentenza della Corte di Appello di Torino si potevano infatti leggere affermazioni sulle donne che mettevano in dubbio la validità delle loro ambizioni, affermando che “avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse tra essi, di divenirne uguali anziché le compagne, siccome la provvidenza le ha destinate”.
Furono tirate in ballo addirittura motivazioni di tipo “medico”, ovvero relative alla presunta impossibilità delle donne di esercitare la professione di avvocato a causa del ciclo mestruale. Ciò avrebbe infatti impedito loro di godere “della giusta serenità”. Infine, non è da dimenticare il presupposto secondo il quale, all’epoca, le donne erano sottoposte all’autorità del marito. Le implicazioni ricadevano sulla loro autonomia, sulla loro libertà di parola e di espressione e, di conseguenza, sulla possibilità di affrontare non solo argomenti ritenuti non adatti alle donne, ma anche potenzialmente imbarazzanti per le fanciulle.
Il ricorso di Lidia Poet e l’esercizio della professione
Lidia Poët non si fermò davanti a questo rifiuto e decise di presentare un ricorso alla Corte di Cassazione. Il ricorso fu poi rigettato e Lidia fu costretta a limitarsi a collaborare col fratello Enrico presso il suo studio. La sua attività, anche se non poteva essere esercitata a pieno titolo, si concentrò nella difesa dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne. Inoltre, si impegnò nel sostenere la causa del suffragio femminile.
Nonostante gli impedimenti che le sbarrarono la via, partecipò al primo Congresso Penitenziario Internazionale a Roma, nel 1883, e al quarto Congresso Penitenziario Internazionale a San Pietroburgo, nel 1890. Rappresentò l’Italia in diverse occasioni in qualità di vicepresidente della sezione di diritto del Segretariato del Congresso Penitenziario Internazionale. Fu anche nominata Officier d’Académie dal Governo francese, che per l’occasione la invitò a Parigi. Infine, ottenne una medaglia d’argento per l’opera prestata quale infermiera per la Croce Rossa durante la prima guerra mondiale.
Per quanto riguarda la sua vita privata, Lidia Poet non si sposò e non ebbe figli, dedicandosi al lavoro con passione e impegno.