Negli ultimi tempi si è sentito parlare molto spesso di dropshipping: sull’argomento c’è molta curiosità, ma anche tanta confusione. Il fenomeno sta prendendo piede anche nel nostro Paese, ma ci sono ancora tante cose da chiarire, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto fiscale: si può fare dropshipping senza partita IVA? E come si pagano le tasse? Cerchiamo di dare una risposta a queste domande.
Si può vendere in dropshipping senza partita IVA?
Prima di tutto bisogna capire bene il concetto di dropshipping. Si utilizza queste parole per indicare i negozi senza magazzino: quando ricevono l’ordine, lo passano ad un altro negozio, che si occupa della consegna del bene ordinato dal cliente. Il negozio “senza magazzino” emette una fattura nei confronti del cliente e riceve un fattura di acquisto per lo stesso prodotto dal negozio che lo ha inviato e consegnato. Un meccanismo del genere presenta diversi vantaggi:
- non ci sono costi per lo stoccaggio e la conservazione della merce;
- non c’è il rischio di rimanere con merce invenduta;
- non ci sono pratiche doganali da sbrigare per le consegne oltre confine.
Naturalmente i redditi generati da questa attività devono essere dichiarati al fisco. La prima domanda che si pone chi intende lanciarsi in questo settore è se sia possibile vendere in dropshipping senza partita IVA. Sul web a volte si leggono notizie contrastanti a riguardo: c’è chi afferma che la partita IVA sia obbligatoria e chi invece afferma che lo diventa solo se vengono superate solo determinate soglie di reddito (5.000 euro). Effettivamente navigando in Rete non è difficile imbattersi in alcuni portale che permettono di aprire un e-commerce senza tanti passaggi burocratici, ma secondo la legge italiana la verità è una sola: non è possibile vendere in dropshipping senza partita IVA.
Il motivo è molto semplice: l’obbligo di aprire una partita IVA non scatta al raggiungimento di una determinata soglia di reddito, ma scatta quando l’attività viene svolta in modo continuativo. La vendita in dropshipping attraverso un sito internet può essere l’emblema dell’attività continuativa, visto che i prodotti nell’e-commerce sono in vendita ogni giorno, ventiquattro ore su ventiquattro. La partita IVA è dunque necessaria: altre formule (prestazioni occasionale, ritenuta d’acconto e così via) sono valide solo per attività che non vengono svolte in modo continuativo, ma in modo esclusivamente sporadico, a prescindere dagli importi in ballo.
Gli adempimenti da rispettare e e tasse da pagare
Per aprire la partita IVA è necessario inviare la comunicazione all’Agenzia delle Entrate, indicano come codice ATECO 47.91.10, che è quello che fa riferimento al commercio al dettaglio online. Bisogna altresì registrarsi alla Camera di Commercio e iscriversi alla Gestione Commercianti dell’istituto nazionale di previdenza. Chiarito il discorso relativo alla partita IVA bisogna fare un po’ di chiarezza anche sulle tasse da pagare; a questo proposito si possono configurare tre diversi scenari:
- regime forfettario, con il reddito imponibile che viene determinato calcolando il 40% del fatturato e sottraendo i contributi; l’aliquota applicata può essere pari al 5% (per i primi cinque anni per le startup) o al 15%;
- ditta individuale (ma lo stesso discorso vale anche per le società di persone), con il reddito imponibile che si calcola facendo la differenza tra il fatturato delle vendite ed i costi sostenuti per l’attività di dropshipping; l’aliquota applicata varia dal 23% al 43% in relazione all’ammontare del reddito imponibile; si devono pagare anche le addizionali comunali e regionali;
- società di capitali, con la tassazione sia sul reddito delle vendite che sugli eventuali dividendi (con aliquota del 26%).
Le tasse tasse vengono pagate due volte all’anno, con scadenze fissate al 30 giugno ed al 30 novembre.